I bambini e la guerra
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I bambini e la guerra
I bambini e la guerra
Le prime vittime di ogni guerra sono i bambini. Prima dello scoppio delle ostilità, perché le risorse del loro paese vengono indirizzate agli armamenti e sottratte alla spesa sociale; durante le ostilità, perché bombardamenti, invasioni, combattimenti, carenze di cibo, di medicinali e di combustibile uccidono soprattutto i più deboli, anche nelle guerre "moderne", "chirurgiche" e "umanitarie"; dopo la fine delle ostilità, perché le devastazioni prodotte dalla guerra, i disastri ambientali, le carestie e le catastrofi umanitarie che ne sono diretta conseguenza, spesso il caos, talvolta le sanzioni internazionali fanno vittime, spesso per anni e anni, fra gli strati più deboli della popolazione.
In Afghanistan, in Angola, in Mozambico e in molti altri paesi i bambini uccisi o mutilati dai bombardamenti, dalle mine antiuomo, dalla violenza dei vincitori di turno si contano a centinaia di migliaia. In Burundi, in Sierra Leone, in Congo decine di migliaia di bambini sono stati torturati, mutilati, stuprati, uccisi, costretti con la forza a combattere per cause che probabilmente nemmeno conoscevano, e certamente non potevano capire. In Irak sono migliaia i bambini che dalla fine della guerra del Golfo del 1991 si sono ammalati o sono morti a causa delle carenze alimentari e della mancanza di adeguate cure mediche: colpa del regime dittatoriale di Saddam Hussein, ma colpa anche dell'embargo imposto al paese.
Il concetto di guerra preventiva che sta alla base dell'attuale dottrina politico-militare degli USA non trova posto né nel diritto internazionale, né nelle norme costituzionali italiane né nelle coscienze di milioni e milioni di cittadini, soprattutto europei. La si può mascherare come si vuole, ma la guerra preventiva ha un solo vero nome: guerra d'aggressione. E come tale ripugna a chiunque abbia a cuore la vita e il futuro dei bambini di tutto il mondo.
È vero: Saddam Hussein è stato un dittatore sanguinario e spietato, che non ha esitato a usare armi chimiche sterminando interi villaggi curdi. Ma non è l'unico dittatore di questo pianeta, non è l'unico a disporre di armi di distruzione di massa, non è l'unico a considerare meno di zero la vita dei suoi sudditi. L'elenco potrebbe essere tragicamente lungo. Ma per tante altre situazioni paragonabili a quella irakena, se non peggiori, il presidente USA non sembra intenzionato né a commuoversi né a indignarsi, né a inviare i suoi bombardieri e i suoi marines come ha fatto in Irak.
Non più tardi di una quindicina d'anni fa, del resto, Saddam Hussein era ancora considerato un baluardo della civiltà dagli Stati Uniti, che l'hanno sostenuto economicamente e con grandi forniture di armi di ogni tipo per aiutarlo a vincere la sanguinosa guerra da lui scatenata nel 1980 contro l'Iran. Saddam Hussein non è cambiato: già allora era un dittatore sanguinario e spietato. A cambiare è stata la strategia statunitense nella regione: oggi come allora, come negli anni 70 (Cile, Argentina, Uruguay, Brasile), come negli anni 50 e 60 (Spagna, Portogallo, Grecia), l'atteggiamento degli USA nei confronti dei vari regimi è determinato solo dalle convenienze geopolitiche del momento.
Non sono amico di Saddam Hussein, non sono amico ― anzi li detesto profondamente ― dei terroristi di Al Qaeda e simili. Non accetto l'equazione pacifisti=amici dei terroristi. È un falso di una propaganda di guerra che si è fatta via via più martellante e insidiosa. Voglio la libertà per l'Irak e il suo popolo, esattamente come voglio la libertà per la Palestina e il suo popolo, come voglio pace e sicurezza per Israele e il suo popolo, come voglio libertà e garanzia del diritto alla vita per il Congo e il suo popolo, per i curdi che da 84 anni si vedono negato il diritto a uno Stato pur sancito da accordi internazionali. Eccetera eccetera, un lungo eccetera che comprende qualche decina di paesi e relativi popoli. Ma proprio per questo ritengo giusto e doveroso mantenere un giudizio nettamente negativo su una guerra d'aggressione di cui le prime vittime sono stati e sono ancora una volta i bambini, gli anziani, i deboli. E continuo a ritenerlo giusto e doveroso anche a guerra ufficialmente finita. Una guerra che ― nonostante la cattura di Saddam Hussein ― non sembra avere avviato a soluzione nemmeno uno dei terribili problemi che gravano sull'Irak e sui suoi popoli. Né aver trovato le fantomatiche "prove" dell'esistenza di quelle armi di distruzione di massa che avrebbero dovuto fornire la giustificazione a posteriori per l'intervento armato.
Piango le vittime dell'11 settembre 2001, piango quelle israeliane e quelle palestinesi, piango quelle congolesi e quelle timoresi e quelle afghane e quelle bosniache e quelle kosovare e quelle russe e quelle cecene. Piango le vittime irakene e quelle delle truppe ― comprese quelle italiane ― impiegate per occupare il paese.
Vorrei non dover più piangere.
Le prime vittime di ogni guerra sono i bambini. Prima dello scoppio delle ostilità, perché le risorse del loro paese vengono indirizzate agli armamenti e sottratte alla spesa sociale; durante le ostilità, perché bombardamenti, invasioni, combattimenti, carenze di cibo, di medicinali e di combustibile uccidono soprattutto i più deboli, anche nelle guerre "moderne", "chirurgiche" e "umanitarie"; dopo la fine delle ostilità, perché le devastazioni prodotte dalla guerra, i disastri ambientali, le carestie e le catastrofi umanitarie che ne sono diretta conseguenza, spesso il caos, talvolta le sanzioni internazionali fanno vittime, spesso per anni e anni, fra gli strati più deboli della popolazione.
In Afghanistan, in Angola, in Mozambico e in molti altri paesi i bambini uccisi o mutilati dai bombardamenti, dalle mine antiuomo, dalla violenza dei vincitori di turno si contano a centinaia di migliaia. In Burundi, in Sierra Leone, in Congo decine di migliaia di bambini sono stati torturati, mutilati, stuprati, uccisi, costretti con la forza a combattere per cause che probabilmente nemmeno conoscevano, e certamente non potevano capire. In Irak sono migliaia i bambini che dalla fine della guerra del Golfo del 1991 si sono ammalati o sono morti a causa delle carenze alimentari e della mancanza di adeguate cure mediche: colpa del regime dittatoriale di Saddam Hussein, ma colpa anche dell'embargo imposto al paese.
Il concetto di guerra preventiva che sta alla base dell'attuale dottrina politico-militare degli USA non trova posto né nel diritto internazionale, né nelle norme costituzionali italiane né nelle coscienze di milioni e milioni di cittadini, soprattutto europei. La si può mascherare come si vuole, ma la guerra preventiva ha un solo vero nome: guerra d'aggressione. E come tale ripugna a chiunque abbia a cuore la vita e il futuro dei bambini di tutto il mondo.
È vero: Saddam Hussein è stato un dittatore sanguinario e spietato, che non ha esitato a usare armi chimiche sterminando interi villaggi curdi. Ma non è l'unico dittatore di questo pianeta, non è l'unico a disporre di armi di distruzione di massa, non è l'unico a considerare meno di zero la vita dei suoi sudditi. L'elenco potrebbe essere tragicamente lungo. Ma per tante altre situazioni paragonabili a quella irakena, se non peggiori, il presidente USA non sembra intenzionato né a commuoversi né a indignarsi, né a inviare i suoi bombardieri e i suoi marines come ha fatto in Irak.
Non più tardi di una quindicina d'anni fa, del resto, Saddam Hussein era ancora considerato un baluardo della civiltà dagli Stati Uniti, che l'hanno sostenuto economicamente e con grandi forniture di armi di ogni tipo per aiutarlo a vincere la sanguinosa guerra da lui scatenata nel 1980 contro l'Iran. Saddam Hussein non è cambiato: già allora era un dittatore sanguinario e spietato. A cambiare è stata la strategia statunitense nella regione: oggi come allora, come negli anni 70 (Cile, Argentina, Uruguay, Brasile), come negli anni 50 e 60 (Spagna, Portogallo, Grecia), l'atteggiamento degli USA nei confronti dei vari regimi è determinato solo dalle convenienze geopolitiche del momento.
Non sono amico di Saddam Hussein, non sono amico ― anzi li detesto profondamente ― dei terroristi di Al Qaeda e simili. Non accetto l'equazione pacifisti=amici dei terroristi. È un falso di una propaganda di guerra che si è fatta via via più martellante e insidiosa. Voglio la libertà per l'Irak e il suo popolo, esattamente come voglio la libertà per la Palestina e il suo popolo, come voglio pace e sicurezza per Israele e il suo popolo, come voglio libertà e garanzia del diritto alla vita per il Congo e il suo popolo, per i curdi che da 84 anni si vedono negato il diritto a uno Stato pur sancito da accordi internazionali. Eccetera eccetera, un lungo eccetera che comprende qualche decina di paesi e relativi popoli. Ma proprio per questo ritengo giusto e doveroso mantenere un giudizio nettamente negativo su una guerra d'aggressione di cui le prime vittime sono stati e sono ancora una volta i bambini, gli anziani, i deboli. E continuo a ritenerlo giusto e doveroso anche a guerra ufficialmente finita. Una guerra che ― nonostante la cattura di Saddam Hussein ― non sembra avere avviato a soluzione nemmeno uno dei terribili problemi che gravano sull'Irak e sui suoi popoli. Né aver trovato le fantomatiche "prove" dell'esistenza di quelle armi di distruzione di massa che avrebbero dovuto fornire la giustificazione a posteriori per l'intervento armato.
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